trotta_logo.jpeg
trotta_logo.jpeg

AVVOCATO STEFANO TROTTA
Studio Principale: Via Mameli n.13/15 - 21052
Località: Busto Arsizio - VA (Italy)


Studio Secondario: Piazzetta Guastalla n. 3 - 20122
Località: Milano - MI (Italy)

Telefono Ufficio Principale: (+39) 0331.636714
Telefono Ufficio Secondario: (+39) 02.83424497
Fax Ufficio Principale: (+39) 0331.636715
Fax Ufficio Secondario: (+39) 02.83424493
Email:
info@studiolegaletrotta.eu
PEC: stefano.trotta@busto.pecavvocati.it

4930d0d62aaf2d01c77eae051491553b

Studio Legale Trotta © 2022 - Powered by Logos Engineering

DIRITTO DI FAMIGLIA

DIRITTO DI FAMIGLIA

 

Non esiste una materia più delicata di quella familiare, per cui il legale che e' chiamato ad occuparsene deve possedere, oltre a una specifica competenza, una particolare sensibilità nel tutelare diritti e sentimenti delle persone coinvolte e deve farlo responsabilmente.

Spesso ci si dimentica che nei procedimenti familiari non ci sono vincitori nè tantomeno sconfitti e se si " vince " talvolta si danneggiano i soggetti più deboli, per cui occorre saper gestire sia la controparte che il proprio assistito, mirando più alla soluzione piu' ottimale che non alla “ vittoria ad ogni costo ”.

Infatti, non sempre il legale deve avallare ogni richiesta del proprio cliente, soprattutto qualora sia pregiudizievole per i figli, né tanto meno farsi imporre strategie difensive ma deve sempre garantire ai minori la possibilità di mantenere rapporti con entrambe le indispensabili figure genitoriali nel quadro della salvaguardia della bigenitorialità.  
La filosofia che ha da sempre ispirato lo studio legale consiste nel salvaguardare preminentemente la famiglia e di educare il proprio assistito al rispetto dell’altro coniuge, anche nei casi in cui il conflitto è serio.

La conflittualità in certe vicende separative e divorzili deve essere sempre tenuta sotto controllo perché, alla lunga, può diventare pericolosa e dannosa per i figli contesi dai loro genitori, che spesso si preoccupano piu’ di se’ stessi durante le concitate fasi pregiudiziali ed in corso di causa.

​Ecco perche', in presenza di determinate condizioni, il legale propone ai propri clienti anche soluzioni alternative alle classiche procedure di separazione e divorzio in tribunale quali la negoziazione assistita, che e' una procedura molto più snella e rapida e consente in pochi incontri di ottenere un titolo equivalente a una sentenza per regolare il post separazione e divorzio.

Fin dal primo incontro, il procedimento consente di stipulare una convenzione di negoziazione assistita e nel corso del secondo si può procedere alla stipula di un accordo di separazione che, laddove la coppia abbia figli minori, deve essere trasmesso al P:M. che deve dare la sua autorizzazione per poi essere inviato entro 10 giorni al Comune competente per la sua trascrizione nei registri dello stato civile.

​​E’ evidente come una separazione giudiziale, oltre ad essere piu’ onerosa ed a procrastinarsi nel tempo con ogni inevitabile ripercussione sulle parti contendenti, nuoce a tutto l’ambiente familiare proprio perché i coniugi continuano a litigare ad oltranza.

Per questo motivo, la missione dello studio legale consiste nel favorire le separazioni consensuali e di cercare di evitare, per quanto possibile, quelle giudiziali vantando un alta percentuale di procedimenti che sono stati consensualizzati sia durante la fase delle trattative ma anche in corso di causa.

Con la separazione, se da un lato falllisce il progetto matromoniale e cessa è la coppia, dall'altro la famiglia deve e può sopravvivere e cio’ ha portato lo studio legale a maturare un approccio più “ umano ” su una tematica così complessa, cercando di evitare ulteriori traumi quando la separazione ormai è inevitabile.

La tutela della famiglia è un tema centrale dello studio legale che nel corso degli anni si e’ occupato di molti casi di separazione e divorzio, di amministrazioni di sostegno, affidamento, tutela e curatela dei minori, eredità, affidi, riconoscimenti paternità e disconoscimenti, successioni e donazioni.

Lo studio legale collabora con consulenti tra cui figurano mediatori, psichiatri, psicologi, medici legali e criminologi proprio perché spesso vi sono vicende familiari complesse e violente che abbisognano di altre professionalità per affrontare adeguatamente un processo sia in sede civile che penale.
 


Diritto civile minorile


Secondo l’ordinamento italiano, in base all’art. 2 c.c. (come sostituito dall’art. 1, l. 8 marzo 1975, n. 39), minore è la persona fisica (v. Persona fisica e persona giuridica) che non ha ancora compiuto il diciottesimo anno di età.
L’ordinamento giuridico accorda una particolare tutela al minore; fondamentale importanza hanno, a questo riguardo, le previsioni generali contenute nell’art. 31 Cost. («la Repubblica […] protegge la maternità, l’infanzia e la gioventù, favorendo gli istituti necessari a tale scopo»), nell’art. 37 Cost. («la Repubblica tutela il lavoro dei minori con speciali norme e garantisce ad essi, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione»), e anche nell’art. 30 Cost. («è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio.
Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti»). Il minore ha capacità giuridica, ma è privo della capacità di agire (v. Capacità. Diritto civile), che si acquista solo al compimento della maggiore età; ciò significa che potrà validamente compiere solo gli atti espressamente previsti dalla legge (per es., l’art. 1, co. 622, della l. 27 dicembre 2006 n. 296 dispone che l’età per l’accesso al lavoro è di 16 anni), mentre in linea generale gli atti compiuti dal minore sono invalidi (art. 591 c.c., art. 1425 c.c. e così via).
Finché non raggiunge la maggiore età il minore sarà pertanto soggetto alla potestà dei genitori (art. 316 c.c., salve le eccezioni previste dalla legge) o, in mancanza, di un tutore nominato dal giudice: i genitori o il tutore si occuperanno allora degli interessi del minore e la loro volontà si sostituirà alla sua nel compimento degli atti; ciò non toglie che quotidianamente i minori di età compiano spesso numerosi atti giuridici (per es., l’acquisto di un libro), nel qual caso si ritiene in genere che agiscano in rappresentanza del titolare della potestà. Il minore, come ogni figlio, deve rispettare i genitori (art. 315 c.c.) e, in caso di tutela, deve rispetto e obbedienza al tutore (art. 358 c.c.).
Il minore temporaneamente privo di un ambiente familiare idoneo a provvedere alla sua crescita ed alla sua educazione è affidato ad una famiglia, preferibilmente con figli minori, o ad una persona singola, in grado di assicurargli il mantenimento, l'educazione, l'istruzione e le relazioni affettive di cui ha bisogno e ove ciò non sia possibile, è consentito l'inserimento del minore in una comunità di tipo familiare o, in mancanza in un istituto di assistenza pubblico o privato.
L'affidamento familiare è disposto dal servizio sociale locale, previo consenso manifestato dai genitori o dal genitore esercente la potestà, ovvero dal tutore, sentito il minore che ha compiuto gli anni dodici ed anche il minore di età inferiore, in considerazione della sua capacità di discernimento. Il giudice tutelare del luogo ove si trova il minore rende esecutivo il provvedimento con decreto. Nel provvedimento di affidamento familiare devono essere indicate specificamente le motivazioni, nonché i tempi e i modi dell'esercizio dei poteri riconosciuti all'affidatario ed il periodo di presumibile durata, che non può superare la durata di ventiquattro mesi ed è prorogabile (artt. 1 ss. l. 4 maggio 1983, n. 184, come modificati dalla l. 28 marzo 2001 n. 149).
Vi e’ infine la figura del minore emancipato: è colui che, avendo compiuto 16 anni, ha contratto matrimonio con il procedimento speciale previsto dall’art. 84 c.c.: egli può compiere validamente da solo gli atti di ordinaria amministrazione, mentre per gli atti di straordinaria amministrazione deve essere assistito da un curatore.

 


Responsabilità genitoriale


A seguito dell’entrata in vigore del recente Decreto Legislativo n. 154/2013 la “potestà genitoriale” è sostituita dalla “responsabilità”.
Il termine “potestà genitoriale” indica l’attribuzione di un potere al genitore nei confronti del figlio, finalizzato all’esercizio di una serie di facoltà nel preminente interesse di quest’ultimo.
Essa include il dovere dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli ai sensi dell’art. 30 Cost. ma anche quelli di custodia, sorveglianza e di convivenza.
I genitori hanno l’obbligo di “bilanciare” l’adempimento di tali doveri con il rispetto della personalità e delle libertà riconosciute al minore dalla Carta Costituzionale.
Oggi, il D. lgs. n. 154/2013 con l’introduzione del termine “responsabilità genitoriale” configura ancor di più il rapporto genitori – figli in termini di diritti e obblighi reciproci, abbandonando l’idea connaturata al concetto di potestà ossia quella della “soggezione” del figlio nei confronti dei genitori.
La responsabilità genitoriale si ha a prescindere dalla circostanza che i figli siano nati all’interno del matrimonio o al di fuori da tale vincolo, nell’ambito delle c.d. “coppie di fatto” e quindi di rapporti di convivenza.
Ai sensi del riformato art. 316 c.c., entrambi i genitori hanno la responsabilità genitoriale e la esercitano di comune accordo. Nel caso in cui essa sia esercitata da uno solo tra i genitori, l’altro deve vigilare sull’istruzione, educazione e condizioni di vita del figlio.

 


Decadenza dalla responsabilità genitoriale


Il D. lgs. n. 154/2013 ha modificato l’art. 330 del codice civile, oggi rubricato “Decadenza dalla responsabilità genitoriale” e non più “Decadenza dalla potestà”.
Presupposti della decadenza: il giudice minorile può pronunciare la decadenza dalla responsabilità  genitoriale quando il genitore viola o trascura i doveri ad essa inerenti o abusa dei relativi poteri con grave pregiudizio del figlio.
Se ricorrono gravi motivi, il giudice può ordinare l’allontanamento del figlio dalla residenza familiare ovvero l’allontanamento del genitore o convivente che maltratta o abusa del minore.
Altri provvedimenti: nell’ipotesi in cui la condotta del genitore non sia tale da fargli perdere la responsabilità genitoriale ma comunque sia pregiudizievole al figlio, il giudice, secondo le circostanze, può adottare i provvedimenti convenienti e può anche disporre il suo allontanamento dalla residenza familiare ovvero l’allontanamento del genitore o convivente che maltratta o abusa del minore, ai sensi dell’art. 333 c.c.
In tali casi, gli inadempimenti dei genitori possono assumere maggiore o minore gravità e consistere nella violazione di tutti i doveri che sugli stessi gravano oppure uno solo o alcuni di essi.
Modalità di proposizione del ricorso: il ricorso per far dichiarare la decadenza dalla responsabilità genitoriale ex art. 330 c.c. e quello per ottenere i provvedimenti ex art. 333 c.c. possono essere presentati dinanzi al Tribunale per i Minorenni del luogo di abituale dimora del minore alla data della domanda.
Al riguardo, il D. lgs n. 154/2013 è intervenuto anche sull’art. 38 disp. att. al c.c., che disciplina i rapporti tra la competenza del Tribunale per i Minorenni e quella del Tribunale ordinario.
I sopradetti procedimenti restano di competenza del Tribunale per i Minorenni del luogo di abituale dimora del minore.
Tuttavia,  è esclusa la competenza del tribunale per i Minorenni nell’ipotesi in cui sia in corso, tra le stesse parti, giudizio di separazione o divorzio o giudizio ai sensi dell’articolo 316 del codice civile. Ciò significa che la cognizione del Tribunale ordinario sussiste solamente quando il provvedimento ablativo o limitativo della responsabilità sia richiesto nell’ambito di un procedimento pendente tra le stesse parti dinanzi al giudice ordinario.
Occorre considerare che, in qualsiasi momento, il giudice può reintegrare il genitore nella responsabilità genitoriale quando, cessate le ragioni per le quali la decadenza è stata pronunciata, sia escluso ogni pericolo di pregiudizio per il figlio, ai sensi dell’art. 332 c.c.

 

 

Tutela e curatela


Si tratta di due istituti posti dalla Legge a protezione degli “incapaci”, ossia quei soggetti che non hanno la capacità di compiere o di compiere da soli atti giuridici rilevanti (capacità di agire).
Ci si riferisce ai minori, agli interdetti ed agli inabilitati. In particolare, gli interdetti e gli inabilitati sono quei soggetti che hanno raggiunto la maggiore età ma si trovano in situazioni che escludono totalmente, nel caso dell’interdizione, o limitano, nell’ipotesi dell’inabilitazione, la capacità di agire. Sono persone in condizioni di abituale infermità di mente che li rende incapaci di provvedere ai propri interessi.
La tutela fornisce adeguata protezione agli interdetti e ai minori i cui genitori non sono in grado di esercitare la responsabilità genitoriale.
La tutela dell’interdetto si apre con la nomina del tutore provvisorio a seguito della pubblicazione della sentenza che ha dichiarato l’interdizione. In seguito all’assunzione di informazioni per valutare l’idoneità del tutore provvisorio il Giudice Tutelare procede alla nomina del tutore definitivo.
La nomina del tutore dell’interdetto e del curatore dell’inabilitato spetta al Giudice Tutelare territorialmente competente che provvede con decreto non appena abbia ricevuto notizia della sentenza che pronunci l’interdizione o l’inabilitazione.
Nel designare il tutore o il curatore il Giudice, ai sensi dell’art. 424 c.c., designa la persona ritenuta più idonea o quella individuata secondo i criteri di cui all’art. 408 c.c. e quindi dando preferenza, ove possibile al coniuge, al convivente, al padre, alla madre, al figlio, al fratello o alla sorella oppure ad un parente entro il quarto grado.
L’interdetto è rappresentato dal tutore nel compimento degli atti di natura patrimoniale; invece per quanto riguarda gli atti personali può operare da solo o di concerto con il tutore.
L’inabilitato, invece, ha una capacità di agire limitata agli atti patrimoniali di ordinaria amministrazione, mentre è assistito legalmente dal curatore nel caso in cui debba stare in giudizio.
Il tutore assume le funzioni dopo aver prestato il giuramento di esercitare l’ufficio con fedeltà e diligenza davanti al Giudice Tutelare.
Il tutore viene scelto, preferibilmente, nello stesso ambito familiare dell’interdetto (coniuge non separato, una persona stabilmente convivente, il padre, la madre, il figlio o il fratello o la sorella, e comunque un parente entro il quarto grado). Se necessario può nominarsi tutore una persona estranea (ad es. in assenza di parenti o in caso di conflitto tra gli stessi).
La figura del “curatore speciale” è necessaria per assicurare al minore la difesa necessaria nell’ambito dei procedimenti di adottabilità. Il minore è, infatti, parte del suddetto giudizio diretto ad accertare la sussistenza delle condizioni di abbandono morale e materiale da parte della famiglia d’origine; tuttavia, non ha capacità di agire e non può quindi nominare un difensore di fiducia.
Di conseguenza, il Presidente del Tribunale per i Minorenni territorialmente competente, all’inizio di un procedimento di adottabilità, provvede con decreto alla nomina di un curatore speciale del minore che possa fornire assistenza legale a quest’ultimo, grazie alla sua ampia e comprovata specializzazione in diritto minorile.
La curatela e’ un istituto idoneo a fornire protezione a quei soggetti che hanno limitata capacità di agire, come i minori emancipati (ossia soggetti almeno sedicenni autorizzati a contrarre matrimonio e non più soggetti alla responsabilità genitoriale ) e gli inabilitati.
Il curatore è nominato dal Giudice Tutelare in situazioni meno gravi rispetto a quelle che conducono alla nomina del tutore poiché si tratta di soggetti che non sono del tutto privi della capacità di compiere atti giuridici.
L’incapace, in tali casi, può infatti compiere da solo tutti gli atti di ordinaria amministrazione e gli atti personali; invece, è assistito dal curatore nel compimento di altri atti previsti dall’art. 394 c.c., come lo stare in giudizio.
Per gli atti di straordinaria amministrazione, il curatore deve essere, inoltre, autorizzato dal Giudice Tutelare.

 


Amministrazione di sostegno


L’amministrazione di sostegno è un istituto introdotto dalla Legge n. 6/2004 finalizzato a tutelare tutti quei soggetti che hanno la capacità di agire, ossia di compiere atti giuridici da soli ma che per effetto di una menomazione o di infermità fisica o psichica sono impossibilitati a provvedere ai propri interessi.
Attraverso l’intervento temporaneo o permanente del c.d. amministratore di sostegno, la Legge tutela tutti coloro che non possono espletare atti di vita quotidiana più o meno autonomamente.
La nomina di un amministratore di sostegno si rende necessaria in tutti quei casi in cui non sussistono le condizioni  per la dichiarazione di inabilitazione o interdizione.
La domanda si propone con ricorso dinanzi al Giudice Tutelare del luogo di residenza o domicilio della persona priva in tutto o in parte di autonomia.
L’amministrazione di sostegno può essere richiesta dallo stesso interessato, anche se minore, interdetto o inabilitato (solo se è stata pronunciata una sentenza che revoca l’interdizione o l’inabilitazione) ovvero da uno dei soggetti legittimati ai sensi dell’art. 417 c.c. quali il coniuge, la persona stabilmente convivente, i parenti entro il quarto grado, gli affini entro il secondo, il tutore, il curatore e il Pubblico Ministero.
L’amministratore di sostegno può essere scelto dal beneficiario con atto pubblico o scrittura privata oppure è nominato dal Giudice Tutelare, qualora per gravi motivi quest’ultimo ritenga che sia necessario scegliere una persona diversa da quella indicata.
L’amministrazione di sostegno comporta una limitazione della capacità di agire della persona sottopostavi che potrà compiere solamente gli atti necessari a soddisfare le proprie esigenze di vita quotidiana, mentre in tutti gli altri casi sarà assistito dall’amministratore.

 


Affidamento


Il problema dell’affidamento della prole si pone nelle ipotesi di crisi del rapporto coniugale o di convivenza precedentemente instauratosi tra i genitori. Il provvedimento di “affido” è proprio quello tramite il quale si ripartisce in sede giudiziale l’esercizio della potestà genitoriale, adesso divenuta “responsabilità”, tra i due genitori che decidono di separarsi.
Oggi, in seguito all’entrata in vigore della Legge n. 154/2013, la disciplina prevista negli articoli 155 e ss. c.c., dettanti norme in materia di separazione dei genitori e di affidamento condiviso dei figli, è stata collocata in un autonomo ambito normativo agli articoli 337 bis e ss c.c.
La precedente disciplina, prevista negli artt. 155 ss. c.c. e introdotta dalla nota Legge n. 54/2006 c.d. “sull’affido condiviso”, aveva organizzato la materia riguardante i figli nella crisi familiare affermando come regola generale quella della “bi-genitorialità”, ossia del diritto dei figli di mantenere rapporti equilibrati con entrambi i genitori anche dopo la cessazione della convivenza, relegando ad ipotesi eccezionali l’affidamento esclusivo ad un solo genitore.
La nuova collocazione all’interno del codice civile (artt. 337 bis e ss. c.c.) si è resa necessaria al fine di introdurre un unico statuto giuridico dei rapporti di filiazione e prevedere una disciplina unitaria degli effetti relativi ai figli nei casi di separazione e divorzio, in quelli di cessazione della convivenza more uxorio al di fuori dal vincolo di coniugio e di annullamento e nullità del matrimonio.

 


Adozioni nazionali


L’adozione è un istituto previsto dalla Legge n. 184/1983, modificata dalla Legge n. 149/2001, nei casi in cui un minore si trovi in situazione di abbandono materiale e morale da parte della famiglia d’origine, ossia genitori e parenti tenuti a provvedere ai suoi bisogni.
Essa consiste nel fornire al minorenne che ne è privo un ambiente familiare idoneo ed ai suoi fini deve innanzitutto trattarsi di un minore nei confronti del quale il Tribunale per i Minorenni territorialmente competente abbia dichiarato lo stato di adottabilità, ossia lo stato di abbandono materiale o morale da parte del proprio nucleo familiare.
I coniugi devono essere stati dichiarati idonei con provvedimento dello stesso Tribunale per i Minorenni ed inoltre i minori che abbiano compiuto i quattordici anni non possono essere adottati se non prestano il proprio consenso. Se l’adottando ha compiuto gli anni dodici deve essere personalmente sentito; se ha una età inferiore può, se opportuno, essere sentito, salvo che l’audizione possa arrecargli pregiudizio.
Nell’ambito dei procedimenti di adozione, è competente il Tribunale per i Minorenni nel cui distretto si trova il minore per il quale sia stato accertato lo stato di abbandono.
Per quanto riguarda i requisiti dei soggetti adottanti, i coniugi che si preparano ad adottare devono essere uniti in matrimonio da almeno tre anni e non devono essere separati neppure di fatto.
Tuttavia, possono adottare anche quei soggetti che, seppur sposati da un numero inferiore di anni, abbiano convissuto in modo stabile e continuativo prima del matrimonio per un periodo di tre anni e ciò sia accertato dal Tribunale per i Minorenni.
Altro requisito è quello dell’età: tra i coniugi adottanti e il minore adottando deve sussistere una differenza di età di almeno diciotto anni e non superiore ai quarantacinque.
Questo limite può essere derogato esclusivamente nell’interesse del minore. Il limite è altresì derogabile anche quando è superato da uno solo dei due coniugi, ma comunque in misura non superiore a dieci anni (in pratica non oltre i 55 anni di differenza) e quando la coppia che si accinge ad adottare abbia già dei figli minori o adotti uno più fratelli.
I coniugi devono essere idonei ad educare, istruire e mantenere i minori che intendono adottare e, qualora siano in possesso dei requisiti previsti dalla Legge possono presentare domanda di disponibilità all’adozione presso il Tribunale per i Minorenni territorialmente competente ed indicare l’eventuale disponibilità ad adottare più fratelli.
Il Tribunale per i Minorenni, accertati previamente i requisiti dei coniugi,  dispone l’esecuzione di indagini da parte dei servizi territoriali al fine di conoscere la coppia, valutarne l’idoneità genitoriale e assumere informazioni circa la propria storia personale, familiare e sociale.
All’esito di questa indagine, i servizi territoriali redigono una relazione da inviare al Tribunale per i minorenni che, sulla base delle indagini effettuate, sceglie la coppia ritenuta più idonea nell’interesse del minore.
Spesso, prima della dichiarazione definitiva di adozione, il Tribunale emette il provvedimento di affidamento preadottivo che è disposto con ordinanza, sentiti il pubblico ministero, gli ascendenti dei richiedenti ove esistano, il minore che abbia compiuto gli anni dodici ed in alcuni casi anche il minore di età inferiore e può essere revocato in presenza di gravi difficoltà.
Entro un anno dall’affidamento preadottivo, con possibilità di proroga di un anno, il Tribunale, se ricorrono tutte le condizioni, pronuncia con decreto l’adozione che ha come effetti la cessazione dei rapporti dell’adottato con la famiglia di origine e l’adottato diventa a tutti gli effetti figlio della coppia e ne acquista il cognome ed ha, inoltre, i medesimi diritti successori dei figli dell’adottante.
Il minore può essere adottato al di fuori dai casi ordinari, ossia quando non sussistono i presupposti per l’adozione legittimante e quindi lo stato di abbandono del minore quando questi sia orfano di padre e di madre e gli adottanti siano persone unite da un vincolo di parentela fino al sesto grado oppure da un rapporto stabile e duraturo preesistente alla morte dei genitori.
Ma anche dal coniuge, nell’ipotesi in cui il minore sia figlio (anche adottivo) dell’altro coniuge, quando il minore abbia un handicap e sia orfano di entrambi i genitori, quando sia stata accertata l’impossibilità dell’affidamento preadottivo, allorchè il minore può essere adottato anche da persone single.
Questo tipo di adozione non elimina i rapporti con la famiglia di origine ma ha come presupposto il consenso tra le parti. L’istituto quindi non “spezza” come nel caso dell’adozione legittimante ogni legame tra adottato e adottante ed è previsto al solo fine di tutelare il preminente interesse del minore.
Per quanto riguarda i diritti successori, il rapporto adottivo rimane circoscritto all’adottante e all’adottato e non si estende alle rispettive famiglie, con l’esplicita conseguenza che solo l’adottato acquista diritti ereditari ed esclusivamente nei confronti dell’adottante.

 


Adozioni internazionali


La Legge n. 184/1983 disciplina la c.d. adozione internazionale, ossia l’adozione di minori stranieri da parte di coniugi italiani o residenti in Italia.
I coniugi che intendano adottare un minore straniero devono presentare dichiarazione di disponibilità al Tribunale territorialmente competente chiedendo che lo stesso pronunci decreto di idoneità all’adozione.
Il Tribunale, se non ritiene di dover rigettare la suddetta richiesta per manifesta carenza dei requisiti di legge, trasmette copia della dichiarazione di disponibilità ai servizi degli Enti Locali.
I servizi territoriali, a seguito delle indagini dirette a valutare il nucleo familiare da un punto di vista personale e sociale, trasmettono una relazione al Tribunale per i Minorenni.
In ragione del carattere internazionale di tale forma di adozione, oggetto della valutazione è soprattutto la capacità dei genitori di approcciarsi a una realtà multiculturale e di adeguarsi alle esigenze di un minore di cultura differente dalla propria.
Ricevuta la relazione, il Tribunale per i Minorenni pronuncia il decreto attestante la sussistenza o l’insussistenza dei requisiti per l’adozione .
Una volta emesso il decreto di idoneità all’adozione, i coniugi possono rivolgersi entro un anno all’ente autorizzato dalla Commissione per le Adozioni internazionali per espletare le ulteriori attività finalizzate all’individuazione di un minore adottabile e al completamento della procedura.
I minori di cui sia accertato lo stato di abbandono materiale e morale da parte dei genitori o di parenti tenuti a provvedervi sono dichiarati in stato di adottabilità dal Tribunale per i Minorenni del distretto nel quale si trovano.
La mancanza di assistenza da parte della famiglia di origine, ai sensi dell’art. 8 della Legge n. 184/1983, non deve essere causata da forza maggiore di carattere transitorio.
La legge prevede che chiunque possa segnalare all’Autorità pubblica lo stato di abbandono.
Il Presidente del Tribunale per i Minorenni, ricevute le segnalazioni sullo stato di abbandono, deve disporre d’urgenza tramite i servizi locali accertamenti approfonditi sulla sussistenza o meno della situazione di abbandono ed in particolare sulle condizioni personali e familiari del minore.
Gli Enti Locali devono predisporre tutte le misure di sostegno più appropriate ai fini di recuperare le capacità genitoriali e supportare il nucleo familiare del minore.
Durante il procedimento di adottabilità l’esercizio della responsabilità genitoriale è sospeso.
Lo stato di adottabilità è dichiarato nel momento in cui, in seguito alle indagini necessarie, permanga lo stato di abbandono e non siano individuabili risorse familiari adeguate entro il quarto grado di parentela, nonostante i programmi d’intervento predisposti dai servizi sociali competenti nei confronti della famiglia del minore.

 


Separazioni


Il nostro codice civile prevede l’istituto della separazione personale dei coniugi.
Si tratta di uno strumento attraverso il quale essi possono porre fine alla propria vita coniugale per fatti di diverso tipo che rendono la convivenza intollerabile.
La separazione può essere consensuale o giudiziale.
La separazione consensuale si basa sull’accordo tra le parti che responsabilmente possono decidere di regolamentare gli effetti di carattere personale e patrimoniale della stessa e esprimere la comune volontà in ordine alle questioni più rilevanti, come eventualmente l’affidamento e il mantenimento dei figli minori.
Il procedimento si instaura con ricorso proposto da uno o entrambi i coniugi dinanzi al Presidente del Tribunale del luogo di residenza o domicilio dell’uno o dell’altro coniuge.
Il suddetto accordo è destinato ad acquistare efficacia in seguito all’omologazione del Giudice ossia un controllo dettagliato che si conclude con l’emissione di un provvedimento con il quale questi attesta la legittimità dell’accordo e la sua conformità rispetto agli interessi dei figli minori, laddove vi siano.
La separazione giudiziale é pronunciata dal Tribunale quando avvengano fatti tali da rendere impossibile la prosecuzione della convivenza o da recare grave pregiudizio all’educazione dei figli.
Il ricorso per separazione giudiziale instaura un vero e proprio contenzioso regolato dalle norme del codice di procedura civile.
L’art. 151 c.c. stabilisce che il Giudice possa dichiarare, su richiesta di una delle parti, a quale tra i due coniugi sia addebitabile la separazione in ragione dei suoi comportamenti contrari ai doveri derivanti dal vincolo matrimoniale.
Una delle conseguenze più rilevanti della pronuncia di addebito è l’obbligo a carico del coniuge ritenuto responsabile di corrispondere il mantenimento all’altro che non abbia redditi adeguati, quindi non solo quanto risulti necessario per il suo sostentamento ma anche quei redditi che consentano di mantenere un tenore di vita simile a quello sussistente durante la convivenza.  Tuttavia, in assenza di redditi adeguati, il mantenimento dell’altro coniuge spetta anche quando non vi sia stata richiesta di addebito.
Al coniuge cui sia addebitata la separazione spetta, invece, esclusivamente il diritto agli alimenti, ossia il diritto di ottenere i redditi sufficienti a soddisfare i bisogni essenziali.

 


Divorzi


Il divorzio, introdotto in Italia con la Legge n. 898/1970, è uno dei casi di scioglimento del matrimonio civile previsto dall’art. 149 c.c.
Nel caso di matrimonio concordatario, ossia religioso regolarmente trascritto nei registri dello stato civile, si parla di cessazione degli effetti civili del matrimonio.
Gli altri casi di scioglimento previsti dal codice civile sono la morte e la dichiarazione di morte presunta di uno dei coniugi.
A seguito della recente riforma introdotta con la Legge n. 55 del 6 maggio 2015, il divorzio può essere richiesto da uno o da entrambi i coniugi trascorsi dodici mesi dalla data di comparizione dei coniugi innanzi il Presidente del Tribunale nel caso di separazione personale giudiziale, o sei mesi nel caso di separazione personale consensuale.
Anche per il divorzio si distingue in congiunto e giudiziale.
Il divorzio congiunto si basa sempre sull’accordo tra i coniugi e contiene la regolamentazione dei loro rapporti economici e delle condizioni relative alla prole.
Il divorzio giudiziale è instaurato su ricorso di un coniuge qualora l’altro non sia d’accordo.
In tal caso, si apre un vero e proprio procedimento contenzioso con una prima udienza dinanzi al Presidente del Tribunale competente che detta i provvedimenti necessari e urgenti nell’interesse della prole; in seguito il procedimento prosegue dinanzi ad un Giudice istruttore e si conclude con sentenza.

 


Unioni civili e convivenze di fatto


Il 5 giugno 2016 è entrata in vigore la Legge n. 76 del 20 maggio 2016, meglio nota come Legge Cirinnà. Detto provvedimento regola  le unioni civili, tra persone dello stesso sesso,  e le convivenze di fatto, tanto tra persone dello stesso che tra persone di sesso diverso.
L’unione civile, tra persone maggiorenni dello stesso sesso, si costituisce di fronte all’ufficiale di stato civile, alla presenza di due testimoni. L’atto di unione civile viene registrato, a cura dell’ufficiale di stato civile,  nell’archivio dello stato civile.
Qualora lo desiderino, le parti dell’unione civile, possono scegliere, tra i loro, un cognome comune. L’altra parte può anteporre o posporre al cognome comune il proprio cognome, se diverso, facendone comunicazione all’ufficiale di stato civile.
Con la costituzione dell’unione civile le parti acquistano gli stessi diritti ed assumono i medesimi doveri. Dall’unione civile scaturisce l’obbligo reciproco all’assistenza morale e materiale e alla coabitazione.
Non c’e’ vincolo di fedeltà.
Entrambi i componenti dell’unione civile sono tenuti, in relazione alle proprie sostanze ed alle proprie capacità di lavoro professionale e casalingo, a contribuire ai bisogni comuni.
Le parti concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare e fissano la residenza comune.
In mancanza di diversa convenzione, il regime patrimoniale ordinario dell’unione civile è costituito dalla comunione dei beni.
Di grande rilievo, quanto previsto nella legge in oggetto per quanto riguarda eredità, TFR, reversibilità, ed indennità di preavviso e fine rapporto:
la parte dell’unione civile avrà diritto al trattamento di fine rapporto (TFR) spettante all’altra parte al momento della cessazione del rapporto di lavoro, nella stessa misura in cui esso attualmente è riconosciuto all’ex coniuge divorziato e non risposato, titolare di assegno divorzile; la parte dell’unione civile ha diritto di ottenere la reversibilità della pensione dell’altra parte, secondo la normativa attualmente in vigore a vantaggio del coniuge; inoltre l’indennità di preavviso e quella di fine rapporto  andranno corrisposte, in caso di morte del lavoratore, anche alla parte superstite dell’unione civile.
Con specifico riferimento ai profili successori il comma 21 dell’articolo unico della Legge n. 76/2016 prevede, in particolare, che alle parti dell’unione civile si applichino gli articoli da 463 a 466 (dell’indegnità); da 536 a 564 (Dei legittimari – dei diritti riservati ai legittimari – della reintegrazione della quota riservata ai legittimari); da 565 a 586 (Delle successioni legittime); da 737 a 751 (Della collazione) e da 768-bis a 768-octies (Del patto di famiglia). Ne consegue che  ogni riferimento al coniuge contenute in queste norme dovrà essere inteso come riferito anche alla parte dell’unione civile.
L’unione civile si scioglie, oltre che in alcuni casi tassativamente previsti dalla legge (come ad esempio per morte, o dichiarazione di morte presunta) anche in caso di proposizione di domanda di scioglimento all’ufficiale di stato civile. La domanda di scioglimento deve essere preceduta, tuttavia, dalla  manifestazione delle parti, anche disgiuntamente tra di loro, all’ufficiale di stato civile, di volontà di scioglimento. Dalla data della manifestazione della volontà alla domanda di scioglimento devono intercorrere tre mesi.
Come noto, per quanto riguarda le adozioni, la legge in oggetto sancisce espressamente che non possano estendersi alle unioni di fatto le disposizioni di cui alla L .184/1983, fermo restando “quanto previsto e consentito in materia di adozione dalle norme vigenti”. Non è ammessa l’adozione legittimante, c.d. Stepchild adoption, anche se alcuni Tribunali l’hanno riconosciuta.
Le convivenze di fatto sono invece quelle che si instaurano tra due persone maggiorenni (indistintamente eterosessuali od omosessuali), che convivono stabilmente, tra loro non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un’unione civile, ma comunque unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale.
La convivenza di fatto, pur essendo irrilevante per ciò che concerne i rapporti personali tra i conviventi, attribuisce ai conviventi una serie di diritti relativi sia alla sfera della tutela della persona sia a quella patrimoniale.
I conviventi hanno gli stessi diritti dei coniugi nell’assistenza del partner in carcere e in ospedale; inoltre ciascun convivente può designare l’altro (in forma scritta ed autografa, oppure alla presenza di un testimone) a decidere al suo posto in materia di salute (in caso di malattia che comporta incapacità di intendere e di volere) e per quanto riguarda la donazione di organi, modalità di trattamento del corpo e celebrazioni funerarie (in caso di morte).
La convivenza di fatto è equiparata all’appartenenza ad un nucleo familiare, qualora quest’ultima costituisca titolo o criterio preferianziale per le graduatorie per l’assegnazione di  case popolari.
Nessun diritto spetta – in assenza di disposizioni testamentarie – al convivente in caso di morte del compagno.
Con specifico riferimento ai diritti derivanti dalla morte di uno dei conviventi, la Legge n. 76/2016 si limita esclusivamente a prevedere che:
il convivente superstite ha diritto di continuare ad abitare nella stessa per due anni (che diventano tre anni ove nella stessa coabitino figli minori o figli disabili del convivente superstite) o per un periodo pari alla convivenza, se superiore, e comunque non oltre i cinque anni. Tale diritto viene meno nel caso in cui il convivente superstite cessi di abitare stabilmente nella casa di comune residenza ovvero contragga matrimonio, unione civile o intraprenda una nuova convivenza di fatto;
in caso di morte del conduttore, il convivente superstite ha facoltà di succedergli nel contratto di locazione della casa di comune residenza;
in caso di morte del convivente derivante da fatto illecito spetta al convivente superstite il diritto al risarcimento del danno, così come previsto in favore del coniuge.
I conviventi “possono” regolare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune, sottoscrivendo un contratto di convivenza.
Tale contratto (come anche le sue modifiche e la sua risoluzione per accordo tra le parti) deve essere redatto, a pena di nullità mediante atto pubblico o scrittura privata autenticata da un notaio o da un avvocato, che ne attestano la conformità alle norme imperative ed all’ordine pubblico. Il professionista è tenuto, entro dieci giorni dalla sottoscrizione a trasmetterne copia al comune di residenza dei conviventi per l’iscrizione all’anagrafe.
Il contratto di convivenza si risolve per: accordo tra le parti, recesso unilaterale, matrimonio o unione civile tra i conviventi o tra un convivente ed altra persona e morte di uno dei due contraenti
In caso di cessazione della convivenza, il giudice stabilisce il diritto del convivente di ricevere dall’altro gli alimenti qualora versi in stato di bisogno e non sia in grado di provvedere ai propri bisogni, in maniera proporzionale alla durata della convivenza, tenendo altresì conto dei bisogni di chi li domanda ed delle condizioni economiche di chi deve somministrarli.

 


Cambiamento di nome e di cognome


Il D.P.R n. 396 del 2000, dettante norme in materia di revisione e semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, ha previsto un’apposita disciplina per il cambiamento del proprio nome o cognome.
Essa è stata poi modificata con il decreto n. 54 del 2012 che ha proceduto ad un ulteriore snellimento della procedura.
L’art. 89 del D.P.R n. 396/2000 prevede oggi che chiunque sia interessato a cambiare il proprio nome o  a aggiungerne un altro oppure voglia cambiare il proprio cognome perché ridicolo o vergognoso o perché rivela l’origine naturale o aggiungerne un altro deve presentare una richiesta al Prefetto della provincia del luogo di residenza o di quello in cui è situato l’ufficio dello stato civile dove si trova l’atto di nascita cui si riferisce la richiesta.
La domanda deve contenere l’esposizione delle ragioni a fondamento della richiesta ed ha carattere eccezionale. Ciò significa che solamente la presenza di situazioni oggettivamente rilevanti e supportate da significative motivazioni può giustificare una simile scelta.
 
L’iter previsto è più celere rispetto al passato poiché la competenza sulla decisione spetta solamente al Prefetto suindicato  e non più al Ministero dell’interno.
Il Prefetto, verificata la sussistenza dei presupposti, emetterà il decreto di concessione di cambiamento del cognome.

 


Riconoscimento e disconoscimento di paternità


Il riconoscimento è un atto con il quale i genitori si attribuiscono la maternità o paternità di una persona creando un rapporto giuridico con la stessa.
La disciplina della materia costituisce anch’essa oggetto di revisione legislativa ad opera della Legge n.154/2013 che ha eliminato ogni riferimento al termine “figli naturali”, equiparando giuridicamente i figli nati nell’ambito del matrimonio e al di fuori di esso.
Attraverso il riconoscimento un fatto puramente naturale, quale la nascita di un figlio al di fuori dal matrimonio, viene trasformato in atto idoneo a produrre rapporti giuridici tra il genitore che effettua il riconoscimento e il figlio riconosciuto.
Il riconoscimento può essere fatto dalla madre o dal padre nell’atto di nascita o in un secondo momento con apposita dichiarazione dinanzi ad un ufficiale dello stato civile o in un atto pubblico o in un testamento.
Se il figlio da riconoscere ha compiuto quattordici anni occorre il suo assenso.
Il riconoscimento del figlio infra quattordicenne non può avvenire senza il consenso del genitore che abbia proceduto al riconoscimento.
In ogni caso, costituisce oggetto di tutela esclusivamente l’interesse del minore.
Di conseguenza, il nostro codice prevede la possibilità che si possa agire giudizialmente per ottenere un provvedimento che abbia gli effetti del riconoscimento.
L’azione può essere promossa dal figlio e se questi muore prima di aver iniziato l’azione, essa può essere promossa dai discendenti entro due anni dalla morte. Il procedimento può essere promosso contro il presunto genitore o i suoi eredi. In mancanza di costoro, l’azione è proposta nei confronti di un curatore nominato dal Giudice dinanzi al quale il procedimento deve essere avviato.
La sentenza che dichiara la sussistenza del rapporto di filiazione produce gli effetti del riconoscimento.
Il disconoscimento della paternità è un’azione giudiziale che può essere proposta per rimuovere l’attribuzione della paternità del figlio concepito durante il matrimonio al marito.
In genere, infatti, si presume che il coniuge sia il padre del figlio concepito; ma può anche non essere così. Al fine di negare la paternità del marito, l’art. 243 bis c.c. prevede l’azione di disconoscimento.
La disciplina, precedentemente prevista nell’art. 235 c.c., è stata adesso trasposta nel nuovo articolo 243 bis c.c., aggiunto dalla Legge n. 154 del 2013.
L’azione può essere proposta non solo dal marito ma anche dalla madre e dal figlio. Ne è escluso il padre naturale.
Il ricorrente deve provare che non sussiste rapporto di filiazione tra il figlio e il presunto padre.
Sono, invece, venuti meno i tradizionali presupposti previsti dalla precedente disciplina al fine di instaurare l’azione ossia la mancata coabitazione fra i coniugi, l’impotenza e l’adulterio.

 


Diritto penale di famiglia


Lo Studio Legale si occupa ormai da anni di diritto penale della famiglia, una branca particolarmente delicata del diritto penale, in quanto tratta di quei reati che si consumano in quel luogo in cui qualsiasi individuo si dovrebbe sentire più al sicuro e protetto, la famiglia.
Sono ricompresi in questa branca del diritto i seguenti reati: violazione degli obblighi di assistenza familiare, maltrattamenti contro familiari e conviventi, abuso dei mezzi di correzione, stalking, sottrazione di minorenni e di incapaci, sottrazione e trattenimento di minore all’estero, bigamia, induzione al matrimonio mediante inganno, incesto, alterazione di stato ed occultamento di stato di un figlio.

 


Diritto penale minorile


Lo studio legale ha prestato assistenza legale nell’ambito di fattispecie criminose sempre più riconducibili ai delitti contro la famiglia e maturate in un contesto familiare e fornisce supporto legale non solo ai minori coinvolti ma anche ai nuclei familiari di appartenenza con il costante ausilio dei servizi socio - assistenziali e di esperti in psicologia e pedagogia.
Lo studio ha anche un’esperienza nel diritto penale minorile, che è quella branca del diritto penale avente per oggetto reati commessi da soggetti minori d’età e quindi infra-diciottenni; nell’ambito dei procedimenti penali minorili, particolare attenzione è rivolta al perseguimento dei fini di rieducazione e di reinserimento sociale del minorenne responsabile di un reato.
A tal fine, la legislazione esistente prevede la possibilità per i soggetti minorenni di intraprendere percorsi positivi di recupero sociale grazie ad istituti quali il perdono giudiziale, la sospensione del processo e la messa alla prova e la sentenza di non doversi procedere per irrilevanza del fatto.
Oggetto principale della attività professionale dello studio legale sono il rispetto e la cura della personalità del minore non solo nei casi in cui sia soggetto attivo di un reato ma anche in quelli in cui sia vittima.

 


Successioni e donazioni


Le successioni sono destinate a regolamentare i rapporti giuridici facenti capo ad una persona in seguito alla propria morte.
Il nostro ordinamento prevede che alla morte di un soggetto, il c.d. “de cuius”, i diritti di cui è titolare siano trasferiti ai membri della sua famiglia con il grado di parentela più vicino.
In linea generale, si possono trasferire tutti i beni del defunto o una quota a titolo di successione universale in favore dei c.d. eredi. Altrimenti, può attuarsi il trasferimento di uno o più obblighi determinati a titolo di successione particolare in favore dei c.d. legatari.
La successione può essere:
legittima ossia regolamentata dalla legge, in assenza di testamento;
testamentaria, se il de cuius ha stabilito tramite un apposito atto, il testamento, a chi saranno trasferiti i propri rapporti giuridici.
Il testamento può essere stipulato per atto pubblico o può essere redatto personalmente dal testatore con scrittura privata (olografo). Vi è, inoltre, il testamento segreto redatto dal testatore e consegnato nel rispetto di particolari formalità al notaio che lo riceve in presenza di testimoni.
In nessun caso, possono essere pregiudicati i diritti che la Legge riconosce ai c.d. legittimari, ossia i soggetti cui spetta di diritto una quota ereditaria, la c.d. legittima.
Ciò significa che il defunto può liberamente disporre per testamento del suo patrimonio ma tale diritto non può spingersi fino a ledere le quote spettanti ai parenti più stretti; in caso di lesione della quota, infatti, i legittimari possono esperire la c.d. azione di riduzione per essere reintegrati nell’assegnazione della propria porzione di eredità.
Le donazioni sono contratti tramite i quali una parte arricchisce l’altra, per spirito di liberalità, disponendo di un proprio diritto o assumendo un’obbligazione nei confronti della stessa.
Si tratta di un atto a titolo gratuito; elemento distintivo della donazione è, infatti, l’animus donandi, ossia l’arricchimento del patrimonio di un altro soggetto senza che venga corrisposto alcun corrispettivo.
Si distinguono le seguenti forme di donazione:
rimuneratoria: compiuta per riconoscenza o per particolari meriti del donatario;
obnuziale: atto unilaterale, eseguito dagli sposi tra loro o da altri soggetti a entrambi o ad uno di loro, in vista di un futuro matrimonio;
indiretta: si realizza con un mezzo diverso da quello abituale e consiste nell’effettuare la donazione con un diverso negozio, come per esempio l’acquisto di un immobile per il figlio effettuato dai genitori con il proprio denaro.
Lo studio legale Trotta si occupa altresì delle seguenti attività correlate: predisposizione dichiarazione di successione; trust, accettazione di eredità, rinunzia di eredità, azioni di riduzione, cause ereditarie, accertamento dei patrimoni, consulenza su divisioni ereditarie e relative azioni.

Come creare un sito web con Flazio